A Sagrado, nell’abitato di Poggio Terza Armata, subito a ridosso della strada c’è un edicola che ricorda una delle pagine più cruente della prima guerra mondiale sul fronte italiano.
Le cifre riportate da questo piccolo monumento ci fanno capire quale sia stata la portata della strage...
In quella tragica giornata del 29 giugno 1916 persero la vita in combattimento ben 6965 fanti e 185 ufficiali dell’esercito italiano.
Purtroppo possiamo solo immaginare le storie personali di quei poveri soldati che si trovavano a presidiare la linea del fronte. I fanti quasi tutti contadini o operai con alle spalle dei lavori umili; di estrazione un poco più borghese gli ufficiali inferiori con i giovanissimi sottotenenti che tante volte interrompevano gli studi universitari per essere inviati al corso e quindi repentinamente assegnati ai reparti. Tutti a casa avevano una persona cara, una moglie, i figli, gli amici, i genitori.
Chissà cosa pensavano tutti questi ragazzi prima che l’Italia decidesse per la guerra. Forse qualcuno era interventista, qualcun altro pacifista. Adesso si trovavano tutti li; tutti probabilmente avrebbero voluto essere altrove. Inchiodati nelle trincee probabilmente dall’amor patrio, ma soprattutto dal codice penale militare che non esitava a comminare la condanna a morte per chi solamente esitava a correre fuori dalla trincea per l’assalto contro le linee fortificate degli avversari.
Tutti assieme avrebbero affrontato quella terribile giornata. Dall’altra parte del fronte c’erano gli austro-ungarici. I loro comandanti erano nervosi perchè l’esercito italiano in questo settore era superiore sia per quanto riguarda gli armamenti che per il numero di uomini.
Dopo la quinta battaglia dell’Isonzo, l’esercito italiano aveva intrapreso una azione di sgretolamento delle difese nemiche; ormai le due linee erano a stretto contatto creando una situazione insostenibile per l’armata del generale Boroevic. Erano iniziati quindi da parte austro - ungarica i preparativi per una offensiva con i gas venefici.
Altrove, altri uomini costretti a farsi la guerra avevano già sperimentato quello che a breve avrebbero dovuto affrontare i soldati italiani nella zona del San Michele. Il 22 aprile 1915, sul fronte occidentale, in Belgio venne sperimentata la nuova arma. Per la prima volta dallo scoppio della guerra entrarono in scena i gas.
Nella zona di Ypres, i tedeschi utilizzarono circa 168 tonnellate di cloro dirigendo il getto di gas verso due divisioni francesi ed una canadese con effetti devastanti. Centinaia di soldati caddero in stato comatoso o in agonia. Il 29 giugno 1916 sul Carso goriziano iniziò l’inatteso attacco austro-ungarico. Sono i giorni precedenti la sesta battaglia dell’Isonzo e la presa di Gorizia.
Sulla linea del fronte erano dislocati alcuni reggimenti delle Brigate Pisa, Regina, Brescia e Ferrara. L’operazione bellica era del tutto inattesa; gli interrogatori di prigionieri e disertori nulla aveva fatto trapelare sulle intenzioni del nemico.
Invece, dalla parte nemica tutto era stato organizzato con meticolosità. Vennero schierate truppe altamente professionalizzate ed abituate al combattimento in prima linea. Oltre che di maschera antigas erano dotate di un’ arma che poteva sembrare anacronistica ma che invece, purtroppo, risultò efficace nel corso del combattimento. Una mazza ferrata con la quale finire gli avversari storditi dai gas ma non ancora deceduti.
I gas utilizzati furono il cloro e il fosgene (cloruro di carbonile), entrambi asfissianti, il secondo molto più tossico del primo e con effetto ritardato. Il trasporto delle bombole contenenti questa arma letale era stato effettuato in gran segreto e di notte in modo da non destare sospetti nello schieramento avversario.
Come spesso nelle operazioni militari, l’effetto sorpresa era determinante, e così, pur disturbati dal fuoco dell’artiglieria italiana, all’alba del 29 giugno iniziava l’attacco. Il gas uscì dalle bombole e sospinto dal vento si diresse verso la linea delle trincee italiane. Molti soldati furono colti dall’attacco nel sonno e, comunque, la maschera antigas in dotazione risultò inefficace contro il tipo di gas usato. Efficaci contro il cloro ma non contro il fosgene.
L’effetto fu devastante per migliaia di uomini che morirono subito sul posto, altri invece perirono nei giorni successivi. Chi veniva colpito dall’azione del gas si trovava in uno stato di grande agitazione dovuto alla difficoltà di respirare e quindi fu facile preda degli assalitori che intanto avevano iniziato a muovere verso la linea italiana.
Piombando nelle trincee, gli austro-ungarici sparavano a bruciapelo ai superstiti utilizzando anche le mazze ferrate per liquidare pure i moribondi. Le due ondate dell’assalto provocarono lo sbandamento dello schieramento italiano che a un certo punto della giornata sembrò sul punto di essere completamento sopraffatto.
Ma la reazione fu invece immediata, favorita anche dal cambio di direzione del vento che aveva lasciato alcune zone delle trincee libere dall’effetto del gas; qui le truppe italiane si ammassarono e si riorganizzarono resistendo all’attacco. La reazione fu rabbiosa proprio a causa del metodo brutale usato dal nemico per l’attacco e le truppe avversarie si scontrarono in campo aperto. Verso metà giornata l’impeto dell’attacco austriaco iniziò a perdere lo smalto iniziale ed anzi gli assalitori furono costretti a rientrare nelle linee di partenza. La giornata si concluse con una situazione sul campo praticamente uguale a quella prima dell’inizio dell’attacco.
Non rimaneva che raccogliere i cadaveri disseminati sul campo di battaglia. Occorreva, anzi, fare presto in quanto il sole di giugno sul Carso apriva la via ad una repentina putrefazione. Gli intossicati recuperati nelle trincee e nei camminamenti, raccolti sul fondo delle doline e nei valloni vennero trasportati negli ospedali da campo della zona. Pochi sopravvissero, la maggior parte spirava dopo ore di agonia.
A ricordo di tutti questi uomini morti, ricordiamo una storia con dei nomi tratta da “5000 Croci, i molisani nella Grande guerra 1915-1918” di Massimo Vitale. Perchè, in fondo, tutte le storie dei soldati che hanno combattuto la prima guerra mondiale, sia da una parte che dall’altra, sono uguali.
“Alle 20 il giorno volge al tramonto, mentre nel sole morente rosseggia la linea lontana dell’orizzonte. Ad ovest, dove la pianura friulana si confonde con il cielo. Ad ovest, verso il Veneto, verso l’Italia, dove l’immaginazione del povero fante analfabeta e meridionale colloca la casa lontana, le misere cose della sua quotidianità, gli amori e gli affetti. Un rapido pensiero, forse una lacrima nello spasmo estremo dell’ultimo, cosciente istante di vita. Poi alle 20, il geniere Pasquale di Iorio, ventottenne di Busso, chiude gli occhi per sempre, steso con altri mille sul lercio strame dell’ospedale da campo n.224.
Nella modesta abitazione di piazza Calleggiero, dove è nato alla mezzanotte del 29 marzo 1888 da Giovanni contadino quarantenne e da Giovanna Picciano, lo aspetterà vanamente la giovane moglie, Cristina Zullo, che ha sposato il 20 aprile 1911”.