Bisiac bisiac. Non è una ripetizione dovuta a dimenticanza. Don Lorenzo, Renzo Boscarol, era proprio così, intensamente bisiaco, radicato nella sua terra, fisicamente e culturalmente. Ne dovessero prendere uno ad esempio, dovrebbero prendere lui. Fanatico di identità male intesa? Neanche per idea. Se c’era uno, che era al di fuori del recinto, era lui, benché la sua identità bisiaca ce l’avesse cucita addosso come la pelle fatta da mamma.
Scattava quando era da scattare; ragionava quando era da ragionare; aveva sentimento senza essere sentimentale. E aveva la testardaggine delle convinzioni radicate per la vita. Giustizia, solidarietà, impegno, lungimiranza; capacità di sopportare le persone moleste, nonostante quella di mandarle “a quel paese”, senza mai lasciar perdere qualcuno, erano qualità possedute in dose massima. Non tutte le decisioni dei suoi superiori, a ben vedere, sono state prese cogliendo nel segno, ma quella di farlo parroco di Ronchi dei Legionari sì, come quella di non farlo monsignore, perché al “rosso” non ci teneva, se non al sapido vino nostrano di quel colore, bevuto con gusto e moderazione.
A Ronchi, e nel “Territorio”, nuotava come pesce nell’acqua; era il suo ambiente di elezione, in consonanza con tutti: quelli della sua parte e gli “altri”, mai avvertiti come nemici, ma gente che la pensava in altro modo, da rispettare, caso mai, quando era necessità, da contrastare con argomenti validi per logica e coscienza. La carità era sua sorella, non esibita, ma praticata nel silenzio; non teorica, accompagnata alla borsa della spesa che portava senza suonare la tromba, convinto di non fare l’eroe, ma di mettersi appena appena sulla strada che il Signore indicherebbe a ogni uomo.
Con questo spirito viveva la quotidianità in convinzione serena e nella bisiaca testardaggine che fosse un dovere da perseguire senza tentennamenti. Così, da responsabile della pastorale del lavoro, levava la voce per difendere i più disgraziati, quelli che la nostra società faceva finta di non vedere e sfruttava, magari lasciandoli in brache di tela quando si trattava di rispettarne i diritti. Lui no: gridava e agiva; gridava e agiva, forse inascoltato dagli uomini, ma certamente accantonando tesori per l’altro mondo. Ringhioso e dolce; deciso e carezzevole: racchiudeva in sé tutte le antinomie che un vero uomo potesse avere.
Ed era anche uomo di una cultura, veicolata dal suo saper scrivere, che diventava mezzo di giustizia, non di autocompiacimento. Qua, lutto spaventoso per averlo perso, ma “Dilà” festa grande per averlo fatto entrare in quella parte di eternità conquistata con le buone opere di una vita, coerente, mai spesa invano, fin nell’ultima fibra. Ricorderemo Don Renzo, fratello dei poveri su questa terra, fra i primi nel regno di Dio!