Concordia et pax” - continuando il cammino di purificazione della memoria e di riconciliazione intrapreso da molti anni - ha sostato sabato 12 ottobre a Terzo e S.Martino proprio per cogliere - nel centro della Bassa friulana - questi drammi e queste sofferenze, questa domanda di pacificazione che rifiuta ogni cancellazione dei fatti ed ogni revisione storica ma chiede gesti di sincerità. Lo compiamo nel nome della fede cristiana secondo la quale ogni credente, ma anche ogni uomo di buona volontà, è chiamato da un disegno provvidenziale che ha la sua conclusione nel Regno di giustizia e di pace, anticipato dalla Resurrezione. In primo luogo il dramma di una guerra assurda che ha soffocato il grido di pace e di giustizia, di verità e di libertà che viene dal cuore dell’uomo. Uno scontro, che doveva essere di idee e di visioni, è diventato invece occasione di disprezzo dell’avversario e del diverso, di ambiguo esercizio della giustizia; la stessa battaglia dell’ uguaglianza nella diversità, della passione per la giustizia e la pace, di costruzione dell’Europa dei popoli, si è trasformata in una lotta atroce di piccolo tornaconto a causa di interessi di parte, provocatrice di divisioni e di invalicabili frontiere di ferro. Allargando ed alzando lo sguardo, noi crediamo che oggi è possibile cogliere in mezzo a tanti segni negativi, anche tanti desideri di bene e di pace, la grandezza d’animo di vincitori e vinti, la solidarietà fra poveri, la fiducia negli ideali grandi, la fedeltà e l’amicizia e tanti sacrifici e lacrime. Insieme al sacrifico di tante giovani esistenze spente dopo inenarrabili violenze, facciamo oggi memoria delle fatiche delle famiglie, dell’insegnamento buono di genitori e maestri che, mettendo in guardia contro il male, hanno insegnato - inascoltati - il bene e la giustizia. La testimonianza di giovani sacerdoti che a rischio della vita hanno visitato feriti e accompagnato i funerali. Un patrimonio che parla ancora e parlerà per le giovani generazioni. Tutto questo diventa possibile quando ogni essere umano, decide di uscire da se stesso e di prendere le distanze dal male; rinnova la volontà di pacificazione; stende la mano per un gesto di amicizia e fraternità; perdona e riceve perdono, senza improbabili revisionismi storici ma con la consapevolezza che solo il perdono può costruire un nuovo terreno di confronto e di collaborazione, di amicizia e di convivenza, di vita e di futuro. Tutto questo lo abbiamo vissuto insieme all’arcivescovo Dino De Antoni, al presidente del sodalizio don Vinko, al sindaco di Terzo di Aquileia avv. Michele Tibald, al testimone - il maestro Musiani - al parroco don Pino Franceschini, ai sacerdoti sloveni, al presidente dell’Anpi, agli amici della protezione civile di Terzo e ad un gruppo di cittadini e di iscritti al sodalizio promotore.
Dopo l’invasione e la occupazione della Jugoslavia il regime fascista costituì nei territori occupati un’amministrazione civile e la parte di Slovenia occupata dagli italiani divenne addirittura amministrativamente una provincia italiana. Prese quindi l’avvio, prima amministrativamente e civilmente e poi militarmente la insensata, fallimentare ed ingiusta politica di italianizzazione forzata della popolazione slovena. Politica forzata di assimilazione che venne attuata purtroppo in tutti i nuovi stati formatisi dopo la prima guerra mondiale a seguito della disgregazione dell’impero Asburgico. La conseguente sollevazione della popolazione della Slovenia portò in breve al nascere ed all’estendersi del movimento di resistenza all’occupatore. Si susseguirono Il boicottaggio, gli agguati a singoli militari e poi ai reparti e gli attentati. Ne conseguì una politica di repressione che vide un crescendo con l’incendio di villaggi, la fucilazione di ostaggi, la deportazione e l’internamento indiscriminato delle popolazioni coinvolte: dai familiari dei ribelli, alle intere popolazioni dei villaggi e delle frazioni ove avvenivano attentati ed attacchi. Sorsero così in Italia diversi campi di internamento di civili. Gli improvvisi arresti e trasferimenti, anche di centinaia persone, effettuati anche nell’arco di una sola notte, creò spesso nelle località di arrivo drammatiche situazioni logistiche con uomini, donne, anziani e bambini alloggiati anche nei mesi invernali alla meno peggio, anche all’aperto in tende, con conseguenze dolorose e drammatiche. Alcuni campi, anche per responsabilità del comando del campo, divennero tristemente famosi come quello di Arbe (Rab) dove nell’arco di breve tempo morirono di malattie e stenti ben 1500 sloveni compresi anziani e bambini. Il movimento insurrezionale, già consolidato nella cosiddetta provincia di Lubiana cominciò ad avere una certa consistenza nella provincia di Gorizia già nella primavera del 1942. Alcune unità e gruppi operavano già prima anche se in modo non coordinato. La svolta organizzativa fu rappresentata dalla formazione del battaglione Gregorœiœ alla metà di agosto del 1942 sopra Ozeljan nel Goriziano. Un ulteriore rafforzamento del movimento partigiano si ebbe, nel settembre 1942, con l’arrivo del comandante Mirko Braœiœ e, nell’ottobre dello stesso anno, con quello del commissario politico Duøan Pirjevec - Ahac. All'inizio del 1943 ci fu un'intensificazione della mobilitazione partigiana come risultato di una più incisiva azione delle autorità partigiane e nelle stesso tempo come risposta alla mobilitazione obbligatoria da parte italiana. Le autorità italiane avevano dato l’avvio già nell'agosto 1942 alla costituzione di due carceri improvvisate dove concentrare i parenti dei partigiani arrestati nell’Isontino, o Litorale, che attendevano il trasferimento nei campi di internamento predisposti all'interno dell'Italia, soprattutto nelle località Cairo Montenotte in Liguria e Alatri nel Lazio (campo Le Fraschette). Per gli uomini fu predisposto un carcere in una parte inutilizzata della fabbrica tessile di Sdraussina - Zdravøœina (Poggio III Armata) presso Sagrado, circa 10 km a sud di Gorizia. Per le donne, anche con bambini, per ovviare al grave disagio dovuto al sovraffollamento ed alla promiscuità delle carceri di Gorizia e del circondario e per cercare di evitare il trasferimento in luoghi distanti dai paesi d’origine, si ricorse invece al convento francescano della Castagnevizza (Cappella) presso Gorizia. Come risulta dalla cronaca del convento l'esercito italiano procedette il 5 ottobre 1942 alla requisizione di parte del convento per consegnarlo in seguito alla questura di Gorizia come carcere per detenute politiche. Le celle destinate ai religiosi furono trasformate in celle carcerarie.. Il carcere di Castagnevizza divenne una succursale delle carceri giudiziarie goriziane alle dipendenze della prefettura di Gorizia, in esso come detto furono rinchiuse soltanto donne, anche molto anziane e alcuni bambini. Si trattava di attiviste e parenti di partigiani o presunte tali, per lo più madri e sorelle. Accadde che venivano rinchiuse anche più componenti donne di una singola famiglia. Al carcere di Castagnevizza arrivarono le prime detenute la fine di ottobre o i primi di novembre del 1942. Il carcere poteva ospitare circa 150 detenute e venne presto riempito. La maggioranza delle detenute erano originarie della provincia di Gorizia, anche se nel giugno del 1943 arrivò un gruppo consistente di donne dalle province di Trieste, Pola e Fiume, detenute nelle carceri di Trieste e Capodistria e poi trasferite alla Castagnevizza. Dalle cronache sappiamo che a guardia del carcere furono assegnati agenti di polizia e carabinieri. All'inizio di aprile del 1943, per evitare contatti con l’esterno, il carcere del convento fu recintato anche all'interno. Si è conservato l'elenco delle detenute, redatto il 24 marzo 1943, in esso risultano 141 persone, tra queste quattro bambini con meno di tre anni accompagnati alle madri. La detenuta più anziana, Antonija Æiæmond da Vogrsko, aveva quasi ottanta anni. La parte del convento adibita a carcere era collegata al cortile mediante un’uscita particolare, le detenute vivevano al pianterreno e al primo piano. Dormivano in letti a castello ad un piano su materassi di paglia e con coperte militari. I locali non erano riscaldati e le detenute d’inverno soffrivano il freddo. Per il sovraffollamento anche qui furono organizzati dalle autorità italiane diversi trasferimenti nei campi di internamento all’interno dell’Italia e sempre per il sovraffollamento furono, alla fine di febbraio 1943, rilasciate alcune detenute con una precedenza per le donne incinte e le minorenni. Soltanto dal carcere di Castagnevizza furono trasferite al campo di Le Fraschette 280 detenute provenienti da diverse località del Litorale. Il trasferimento e lo smistamento delle detenute veniva eseguito dall’Ispettorato speciale per l’ordine pubblico della Venezia Giulia. Così la testimonianza di una internata a 70 anni di distanza: “Nel febbraio del 1942 mio fratello andò a fare il partigiano. Allora arrestarono mio padre e lo rinchiusero nelle carceri di Gorizia. Fu torturato fino a morirne nel dicembre del 1942. Mia madre morì nell’agosto dello stesso anno. Rimasi così sola, essendo la mia sorellastra già sposata. Nel febbraio del 1943 portai il pranzo a mio cognato a Gorizia, dove era trattenuto nelle carceri della questura. In questura fui trattenuta ed arrestata. Mi interrogarono, chiedendomi dove era andato mio fratello. Gli interrogatori si tenevano di notte. Era terribile. Una mia vicina era stata anche torturata. Fui poi trasferita di notte dalle carceri di Gorizia, dove si trova il tribunale, al carcere sulla Castagnevizza. Lì si trovavano 170 donne provenienti dal Carso, da Aidussina, dalla valle del Vipacco, dal Collio. Ero tra le più giovani. Festeggiai il 16° compleanno sulla Castagnevizza. Nella stanza eravamo in sei e dormivamo nei letti a castello. Ci davano soltanto un pasto al giorno, a mezzogiorno. Nella calura estiva non ci davano neanche l’acqua. Le finestre erano sprangate e oscurate, rimaneva in alto soltanto una fessura da cui si poteva vedere qualcosa dell’esterno. Le compagne mi aiutavano perché potessi arrampicarmi e vedere attraverso la fessura il cortile interno. Alcune detenute ricevevano pacchi da casa e avevano anche visite. Io non avevo nessun contatto con l’esterno. La nostra famiglia era stata proprio annientata. I fascisti ci hanno proprio finito”. “I padri erano buoni. Ogni domenica celebravano per noi la messa, non potevano però parlare con noi perché la polizia in borghese controllava dal corridoio i padri che venivano a dir messa. La cappella si trovava in fondo al corridoio del primo piano. Anche i carcerieri erano buoni. Ogni tanto ci passavano in segreto il giornale, per noi era allora una festa. Due di essi erano però dei veri fascisti, in camicia nera. Quando, una volta, mi ero arrampicata alla finestra le altre detenute mi chiesero: “chiedi un po’ quando finirà la guerra!”. Allora mi scoprirono e mi picchiarono sulle dita, da entrambe le parti, cosicché mi si gonfiarono le mani. Nel carcere mi ammalai, fui ricoverata nell’ospedale della Casa Rossa. Avevo l’acqua nei polmoni, me ne tirarono fuori quattro litri e in seguito ebbi ancora delle ricadute. Eravamo di diverse età alcune detenute avevano con sé i bambini, come una signora che veniva dal Carso. Potevamo parlare tra di noi quando andavamo in cortile non potevamo però comunicare da un piano all’altro. Era terribile, non ci si deve ricordare, venivano anche dalle carceri di Trieste mi ricordo di una di nome Tonica, che aveva ai polsi i segni delle catene con cui era stata legata. Aveva subito la tortura dell’acqua, legata con le mani ed i piedi ad una panca. Quanto hanno sofferto le donne nelle carceri! Alla capitolazione dell’Italia arrivarono dalla questura e ci dissero che potevamo tornare a casa. Uscimmo come sapevamo ed eravamo capaci. Andammo proprio di corsa. Io andai direttamente a casa per il ponte sull’Isonzo, attraverso Piuma a Podsabotin. A Gorizia non ritornai perché mi avrebbero arrestata., ero diventata attivista.” Alla caduta del fascismo, il 25 luglio 1943, le condizioni nel carcere di Castagnevizza non cambiarono molto, la vigilanza si allentò e si sentiva soltanto nell’aria una maggiore libertà. Non arrivarono disposizioni per i campi di internamento dei politici e fu solo dopo la capitolazione dell’Italia, l’8 settembre 1943, che le carceri vennero aperte. In un rapporto del 11 maggio del 1945 il Generale Bruno Malaguti, comandante allora la Divisione Torino scrive che “ per quanto non di mia competenza, il 10 settembre mattina, in accordo con il Maggiore Verde comandante del Gruppo Carabinieri Reali di Gorizia, ordinavo la liberazione di tutti i detenuti politici delle carceri e dei campi di concentramento di Gorizia e provincia affidandone l’esecuzione allo stesso maggiore Verde.” Si concludeva per le nostre popolazioni una triste, drammatica pagina di storia ma si stava aprendo un’altra altrettanto drammatica.