Chi è l’uomo davanti alla morte? Quali pretese può avere un essere umano di fronte all’inesorabile disfacimento che attende ogni cosa? La vita dell’uomo è solo un «sogno di un’ombra» come cantavano gli antichi? Gli ultimi due anni di pandemia ci hanno fatto riscoprire delle tonalità spesso rifuggite dell’esistenza umana, e il fioccare di saggi sulla fragilità e la resilienza ne sono una chiara testimonianza. Ma il covid è stato solo questo? Un memento mori inculcato nella vita della gente a suon di bollettini e scannerizzazioni? Sarebbe riduttivo. Oltre ad averci ricordato la caducità della nostra condizione, sembra che la pandemia abbia anche messo in luce – quando non in ombra! – attitudini ed interrogativi dormienti dell’esistenza umana. Ma quali?
Siccome non siamo i primi a confrontarci con simili teatri pandemici e siccome l’uomo – al di là dei secoli e delle latitudini – è sempre uomo, crediamo che per formulare un abbozzo di risposta potrebbe essere interessante interpellare chi, prima di noi e come noi, si è confrontato con rovinosi scenari pestilenziali.
Il primo autore che vogliamo far intervenire è il poeta latino del I secolo a.C. Tito Lucrezio Caro. Anche se egli non visse sulla sua pelle il dramma di un’epidemia mortifera, Lucrezio chiuse il VI libro del suo poema, il De rerum natura (“Sulla natura”), proprio con l’incombere della peste nella città di Atene.
Per descrivere questo quadro desolante, Lucrezio compose versi cupi e feroci, soffermandosi con dettagli spesso agghiaccianti sui sintomi scatenati dal morbo sulla popolazione: «Trasudava sangue la gola, dentro annerita, ostruita da piaghe si serrava la via della voce, e l’interprete della mente, la lingua, colava umore sanguigno indebolita dal male, grave a muoversi, ruvida al tatto.» (De rerum natura, VI, vv. 1147-1150)
È curioso notare poi che proprio per parlare dell’azione scatenata dalla peste, già Lucrezio utilizzasse il lessico epico-guerresco; e chi di noi in questi ultimi due anni di pandemia non ha sentito ripetere espressioni e similitudini belliche come «siamo in guerra contro il coronavirus» o parlare di una «battaglia contro il virus vinta grazie al sacrificio di tutti»? Ma non è l’utilizzo del campo semantico militare che è stato usato per parlare della pandemia che ci interessa.
Ciò che infatti rappresenta una particolarità estremamente attuale di Lucrezio, è la sua attenzione ai risvolti psicologici della peste, tanto che leggendo alcuni versi sembra davvero di rivivere le emozioni provate da molte persone durante le fasi più dure del primo lock-down: «ai mali intollerabili erano assidui compagni un’ansiosa angoscia e un lagno interrotto da gemiti» (VI, 1158-1160); se non addirittura l’iniziale incertezza della scienza medica sul da farsi: «la medicina balbettava per muto timore» (VI, 1179).
In qualche modo, la peste che imperversa ad Atene – oltre che a straziarlo – interroga ed inquieta l’uomo, produce in lui un senso di smarrimento pressoché totale e lo sconvolge fino a farlo morire.
Ma perché Lucrezio avrebbe dovuto terminare il proprio poema in maniera così cruenta? Si tratta di un finale incompiuto? È solo il pessimismo di Lucrezio? O dietro di esso si nasconde un’interpretazione epicurea della vita e della morte? Senza voler in alcun modo tentare di dirimere la complicata questione che ha impegnato da sempre i critici letterari, c’è da dire che questo inquietante affresco pestilenziale potrebbe davvero invitare il lettore a considerare l’esistenza, la natura delle cose appunto, in maniera differente.
Gli eventi drammatici della vita (e.g. la peste di Atene) avrebbero il pregio di smascherare tutte quelle false credenze di cui la vita degli uomini è il ricettacolo. Soggiogato dalle illusioni della religio – quell’apparato di credenze e pratiche che nei secoli ha imbarbarito ed ingabbiato il genere umano – l’uomo si sarebbe infatti costruito delle idee fantocce per gestire l’insopportabile crudeltà della vita, prima fra tutte, l’idea che l’universo sia regolato da un’intelligenza divina; secondo Lucrezio però: «basterebbe osservare le condizioni del mondo in cui viviamo, per conchiudere che la natura non è opera della perfezione divina né è fatta per l’uomo, tanti sono i difetti che la deturpano.» (V, 196-199)
Ma quindi, davanti a un male così esagerato, all’uomo che cosa rimane? Quale prospettiva sulla realtà può reggere una simile catastrofe? Secondo Lucrezio, solo la via tracciata dal filosofo Epicuro può liberare il genere umano dalle illusorie maschere della religio, e renderlo così capace di gestire le dure sferzate che ci riserva la vita. Ecco dunque che ci viene presentata una prospettiva convincente sull’angosciante finale dell’opera: seguendo la scienza e la dottrina epicuree, gli uomini possono arrivare alla beatitudine e alla serenità interiori, e sono finalmente in grado di guardare senza sgomento o vertigini d’orrore sia ai mali fisici e morali che affliggono l’umanità, che agli aspetti più scabrosi della natura.
Quasi tre secoli più tardi, anche Tascio Cecilio Cipriano si confrontò con una pandemia di peste e, questa volta, non solo come espediente letterario.
Vescovo di Cartagine, Cipriano dovette fronteggiare la peste che infuriò nella sua città tra il 252 e il 254 d.C. e lo fece anche con un’opera, intitolata De mortalitate (Sulla mortalità/caducità). In essa Cipriano, guida autorevole delle comunità cristiane del nord Africa, tentò di rispondere alle incertezze di molti fedeli sul da farsi e, un po’ come Lucrezio, rilesse questo evento. Se però la prospettiva lucreziana muoveva dalla serena convinzione epicurea che, se è vero che gli dèi esistono, essi non si curano di noi, Cipriano è esattamente agli antipodi: per il vescovo cartaginese infatti il punto di partenza imprescindibile per leggere quello che stava accadendo era proprio l’esistenza di un Dio benevolo.
Anche se – bisogna dirlo – in quest’opera si respira ancora un forte dualismo tra la fugacità/negatività della realtà terrena e la definitività/positività di quella futura, l’ottica credente di Cipriano gli permise di vedere nella pandemia qualcosa di più che una semplice piaga.
Prima di tutto, la peste dimostrerebbe che Dio non fa differenza o preferenza tra cristiani e pagani ma che, anzi, entrambi sottostanno alla «legge della primordiale creazione» e condividono la stessa condizione; e segnaliamo amaramente che quest’ultimo dato non è per nulla scontato nemmeno oggi, viste le dichiarazioni fatte da alcuni capi religiosi durante l’epidemia di covid.
Se si vuole trovare una differenza, invece, per il vescovo cartaginese essa risiederebbe nel modo con cui gli uni e gli altri affrontano la peste: «quelli che non conoscono Dio, nelle avversità si lamentano e protestano, noi invece (i cristiani) non ci allontaniamo dalla pratica della virtù e dalla verità della fede, e le avversità ci provano nel dolore.» (De mortalitate, 13)
Possiamo notare quindi che la prospettiva di fede, secondo Cipriano, muterebbe il nostro approccio alle avversità, facendocele considerare non come un qualche tipo di punizione mandata da una divinità arrabbiata, ma come un’occasione per capire chi si è veramente e per vivere la verità di ciò in cui si crede.
Verso la fine dell’opera infatti, Cipriano si chiede: «Insomma, fratelli carissimi, che cos’è, in sostanza quel morire? Qual è oggettivamente? In che senso ci riguarda? Come potrebbe essere necessario che questa pestilenza o epidemia che appare orribile e mortale metta a nudo la nostra identità e scruti i comportamenti del genere umano?» e poi, risponde: «Essa, la peste, serve se coloro che sono sani aiutano gli infermi; se i congiunti amano pietosamente i loro parenti, se i padroni sentono compassione dei loro servitori malati; se i medici non trascurano i malati che invocano la loro opera; se i violenti frenano la loro prepotenza; se i ladri trattengono, almeno in vista della morte, la brama sempre insaziabile della furente rapacità; se i superbi frenano la loro alterigia; se gli avventurieri placano l’avventatezza; se, a suffragare i congiunti che stanno per andarsene, i benestanti destinati a morire senza eredi, almeno in questa occasione largiscono o donano qualcosa agli indigenti. […] Questa pestilenza è per noi una sorta di allenamento, non è un funerale.» (De mortalitate, 16)
Regalandoci queste pagine di intrepida bellezza, Cipriano sembra dirci dunque che anche un evento drammatico come un’epidemia di peste, attraverso gli occhi della fede, può essere colto ed interpretato alla luce di Dio, quasi come fosse gravido di un senso eterno, come fosse un’opportunità per migliorare e capire sé stessi.
Se nell’impostazione lucreziana la religio è dunque ciò che, con illusioni e credenze, “relega” gli esseri umani, nella visione di Cipriano essa (o, per meglio dire, la fede) è ciò che li “lega” tra di loro.
In definitiva, anche se differenti, entrambe le prospettive si presentano come una ricerca di senso in una situazione che, a prima vista, si presenta come tragicamente insensata; e questo senso in entrambi i casi sembra passare attraverso la solidarietà verso il prossimo.
Se è vero infatti che per Lucrezio l’unico modo di fronteggiare gli sconvolgimenti nella vita è dato dalla via tracciata da Epicuro, e cioè il raggiungimento di un’individuale imperturbabilità, bisogna anche riconoscere che egli scrisse un poema epico-didascalico nell’interesse dei suoi contemporanei, per liberarli cioè dalle schiavitù delle loro illusioni.
E se è vero che Cipriano risente di un certo dualismo d’ispirazione neoplatonica, per cui il mondo attuale è una sorta di esilio dal mondo futuro che ci aspetta nell’aldilà, questo non lo confina in un eremo solitario ad aspettare che l’epidemia finisca insieme a tutto ciò che esiste ma, anzi, la sua fede lo sprona ad agire e ad aiutare il prossimo, anche a costo di contagiarsi.
Il covid, in questi due anni, ha cambiato molte cose. Ospite sinistro in una società sempre in salute e per nulla abituata a dialogare con la morte, questo virus subdolo ed invisibile ha minato le fondamenta delle nostre consuetudini, ha ridisegnato le nostre priorità e i progetti di un uomo contemporaneo che crede di tenere tutto sotto controllo. Per molto tempo nessuno di noi ha potuto vivere per abitudine, sommariamente, ma si è invece dovuto confrontare senza sconti con la regina di tutte le paure. La constatazione dell’assurdità e della caducità della vita, dopo il covid, non può più essere la fine della ricerca ma semmai il punto di partenza per un’azione caritativa.
Seppure con delle innegabili diversità, abbiamo visto che sia per Lucrezio che per Cipriano – quindi sia per l’agnostico che per il credente –, la solidarietà umana e il lavoro su sé stessi sembrano essere le strade preferenziali per rendere meno tragico il vivere, e che avere una prospettiva salda e priva di illusioni può davvero fare la differenza.
Le prove di aiuto vicendevole che si sono diffuse in ogni parte del mondo durante gli ultimi due anni di pandemia, crediamo possano testimoniare che né Lucrezio né Cipriano si sbagliavano: solamente la persona che ha fondato la propria vita e la propria visione sul mondo su una base solida può sopravvivere ad un mondo che cambia in continuazione e che sembra vacillare davanti ad un essere microscopico.
Ma su cosa si fonda, allora, la nostra vita? Su idee? Superstizioni? Forse il covid ci ha mostrato, in mezzo a tanto dolore, che è tempo di scoprire ed eliminare tutti i nostri idoli e le nostre illusioni e che ci apriamo, senza astrazioni, ad un autentico rapporto verso noi stessi e verso chi ci sta accanto.