Il 17 maggio scorso, nella sede di Borgo Castello dei Musei Provinciali di Gorizia, è stata inaugurata la mostra Donne nella Grande Guerra, organizzata in collaborazione con il “Museo 1915-1918 Dall’Ortler all’Adriatico” di Kötschach-Mauthen, con l’Associazione Dolomitenfreunde - Amici delle Dolomiti, con l’Associazione èStoria; con il sostegno dell’Associazione Isonzo - Gruppo di ricerca storica, del Consorzio Turistico Gorizia e l’Isontino, e dell’Azienda Provinciale Trasporti.
La mostra, aperta dal martedì alla domenica, dalle 9 alle 19, sarà visitabile fino al 4 novembre 2012.
L’esposizione si apre con uno sguardo sulla condizione della donna agli inizi del Novecento, condizione che risulta piuttosto differenziata sia dalla diversa appartenenza statale, sia rispetto alla classe sociale. Nei paesi economicamente sviluppati, il lavoro femminile, per le classi meno abbienti, era una realtà, per quanto il lavoro delle donne fosse poco considerato e ancor meno valutato anche dal punto di vista dei salari, mentre la donna continuava ad essere in una posizione di subalternità e dipendenza totale dall’uomo nelle altre classi. Dopo un rapido sguardo sui movimenti di emancipazione femminile che, a partire dalla seconda metà dell’Ottocento, iniziano a farsi sentire soprattutto nei paesi economicamente avanzati come mostrano le tante manifestazioni volte soprattutto a raggiungere parità di diritti e, tra questi, il fondamentale diritto al voto, l’esposizione si avvia a raccontare - attraverso immagini e diorami - l’imponente ruolo delle donne durante il primo conflitto mondiale. Infatti, con la mobilitazione e col rapido incremento delle perdite, un numero sempre maggiore di uomini fu chiamato alle armi e dovette lasciare il proprio posto di lavoro. Furono le donne che, oltre a soddisfare ai propri doveri familiari, sostituirono gli uomini nei posti rimasti vacanti, in occupazioni fino ad allora esclusivamente maschili: operaie nelle fabbriche, guidatrici di tram, postine, vigili del fuoco, operaie forestali. Numerose si impegnarono in organizzazioni volontarie di soccorso; si dedicarono alla cura dei feriti e degli ammalati. A Gorizia, per esempio, la Croce Rosa austriaca - già nel 1914 - aveva predisposto l’allestimento di un ospedale che fu realizzato nei locali del Seminario teologico centrale. Qui si trovarono fianco a fianco donne di estrazione sociale diversa e di sentimenti nazionali a volte opposti. Tutte però lavorarono nell’obiettivo comune alleviare le sofferenze ai feriti che, nel corso delle prime quattro battaglie dell’Isonzo, giunsero numerosissimi. Nell’ospedale operavano anche le suore della Provvidenza e le novizie, insieme con altre volontarie giunte fino dalla Germania come il caso, riportato da nel suo diario dalla crocerossina Virginia Marinaz, di un’attrice tedesca del teatro di Berlino. Altre furono militarizzate e utilizzate tanto in uffici quanto in lavori pesanti come nel caso delle portatrici. In rari casi parteciparono anche direttamente ai combattimenti. In particolare in Austria-Ungheria ragazze e donne furono impiegate al fronte su base volontaria per raccogliere informazioni; per il rifornimento di viveri ai combattenti, per sostituire in uffici civili e militari gli uomini che erano al fronte. Sul fronte dell’Isonzo fu presente anche la giornalista viennese Alice Schalek, prima donna inviata di guerra al fronte. Fu in particolare nelle fabbriche e, tra queste, nelle fabbriche di esplosivi e munizioni, che le donne vennero impiegate in modo massiccio. La manipolazione di sostanze chimiche velenose con cui si preparavano gli esplosivi provocò gravi problemi di salute che furono sottovalutati. La mortalità tra le operaie era molto alta per gli incidenti dovuti alla mancanza di norme di sicurezza imposta dall’obbligo di aumentare e velocizzare al massimo la produzione. In mostra sono ricordati alcuni tra i più spaventosi disastri avvenuti in questo campo. Tra questi l’incidente di Wöllersdorf del 18 settembre 1918. Nel capannone n. 143 circa 500 ragazze e donne stavano confezionando le cariche di lancio per i bossoli di artiglieria dei grossi calibri. L'esplosivo era composto da nitrocellulosa e nitroglicerina. Il lavoro era molto pericoloso e le operaie ne erano solo parzialmente consapevoli. Poco prima del pranzo, venne ordinato di sbarrare tutte le porte ad eccezione di una per impedire che la pausa pranzo iniziasse troppo in anticipo. “...Alle 11 e 45 una scintilla, un getto di fuoco, detonazioni e esplosioni hanno provocato fiamme fino a 3.000 gradi. Gli operai terrorizzati di fronte alla morte, si lanciano verso l'unica porta non chiusa a chiave. In un istante la porta è bloccata da un groviglio di corpi umani di donne cadute a terra. Lo stabilimento non aveva finestre...”. Nel rapporto ufficiale il direttore dello stabilimento scrisse di 277 lavoratrici morte... “il lavoro della fabbrica di munizioni non è stato disturbato dall'incidente e prosegue in buon ordine”. Lo stato di semischiavitù in cui si trovarono a vivere le maestranze delle fabbriche, militarizzate e sottoposte alle leggi di guerra, impediva ogni azione a tutela della salute e della sicurezza, o a difesa del salario, bollata subito come sovversiva e disfattista di fronte ai supremi interesse del paese. Ma la guerra costrinse anche alla fuga centinaia di migliaia di civili dalle zone di guerra: si trattava di donne, con vecchi e bambini, che negli anni del conflitto percorsero l’Europa nella speranza di trovare un posto più sicuro dove fermarsi e dove trovare come sopravvivere. In tanti si rifugiarono nelle città dove le condizioni di vita si facevano di giorno in giorno peggiori con i generi alimentari razionati e la penuria di ogni sorta di merci. A questo genere di rifugiati, vanno aggiunti, in particolare per il territorio del Litorale e del Trentino, coloro che erano stati sgomberati di forza dall’esercito, perché i paesi erano sul fronte; gli internati per motivi politici, tanto dall’esercito austroungarico, quanto dall’esercito italiano, quando questo già nel giugno del 1915 aveva occupato diversi paesi dell’Isontino. Il doppio impegno, in casa e al lavoro, con un salario sempre più basso di quello degli uomini; l’impossibilità di seguire l’educazione dei figli, costrinse le donne a cambiare sostanzialmente il loro stile di vita. Contemporaneamente nascevano anche una nuova consapevolezza e indipendenza, derivate dal ruolo attivo che le donne avevano assunto negli anni del conflitto anche se con la fine della guerra, con la riconversione ad uso civile dell’industria e le generali difficoltà economiche molte donne persero il loro posto di lavoro. Inoltre particolarmente pesante risultava la situazione delle vedove e delle mogli dei tanti soldati che rientrarono invalidi dalla guerra e quindi impossibilitati a trovare un lavoro. Le donne uscirono quindi dall’esperienza della guerra con maggiore fiducia in sé stesse e, allo stesso tempo, con la convinzione che nulla sarebbe stato più come prima. La strada verso l’emancipazione, però, non era ancora tutta percorsa.
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