Le due "Germanie": 1989 - 2019Disuguaglianze territoriali, destra estrema e antisemitismo a trent'anni dalla caduta del muro di Berlino.
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Al termine della Seconda guerra mondiale, la Germania che era stata sconfitta, venne divisa in quattro zone di occupazione controllate da Gran Bretagna, Francia, Stati Uniti e Russia. Simbolo della frammentazione diventò la vecchia capitale Berlino che venne anch’essa spartita in quattro aree. Con l’inizio della Guerra fredda, nel 1949, le zone in mano a britannici, francesi e americani formarono la Repubblica Federale Tedesca, comprendente anche Berlino Ovest. Con il termine “Guerra fredda” si faceva riferimento alla divisione del mondo nelle due sfere di influenza che vennero a crearsi tra le due principali potenze emerse dalla Seconda guerra mondiale: gli Stati Uniti d'America e l'Unione Sovietica. Per estensione, con quell’espressione si sarebbe poi indicata per anni l’aperta contrapposizione tra le due principali ideologie politico-economiche del Novecento: la democrazia-capitalista da una parte e il socialismo reale estraneo all'internazionalismo del mercato dall'altra.
Era il 5 marzo 1946 quando Winston Churchill, parlando al Westminster College di Fulton, nel Missouri, ebbe modo di pronunciare una frase: «From Stettin in the Baltic to Trieste in the Adriatic, an iron curtain has descended across the continent». Da quel moment il termine “cortina di ferro” sarebbe divenuto d’uso comune ed avrebbe indicato, soprattutto simbolicamente, la divisione tra un Occidente filoamericano, in cui oltre agli Stati Uniti si collocavano gli altri membri dell’Europa occidentale appartenenti alla NATO ed un Est, o per meglio dire, un “blocco comunista”, in cui erano fatti rientrare oltre all’Unione Sovietica i Paesi dell’Europa centro-orientale membri del Patto di Varsavia. La storia del Muro di Berlino può essere fatta iniziare il primo giugno 1948, quando francesi, inglesi e americani decisero di unificare i territori di propria competenza, mentre l’Unione Sovietica si ritirava dalla Commissione di controllo alleata. La crisi di Berlino era ormai iniziata. Nella seconda metà di giugno l’amministrazione della città veniva assegnata a due borgomastri diversi, Ernst Reuter ad Ovest e Friedrich Ebert ad Est. Di fatto la città era già divisa. Il 24 maggio 1949 nasceva la Repubblica Federale Tedesca, filo-occidentale, ed il 7 ottobre la filosovietica Repubblica Democratica Tedesca; il 26 maggio 1952 il confine tra la Germania Est e la Germania Ovest veniva chiuso, con l’eccezione del confine cittadino di Berlino. La chiusura imposta non fece che accrescere l'attrazione per i settori occidentali di Berlino da parte dei cittadini della Germania Est, tanto che tra il 1949 ed il 1961 circa due milioni e mezzo di tedeschi passarono da Est ad Ovest. Fu fu per fermare quell'esodo che il regime comunista iniziò la costruzione di un muro attorno ai tre settori occidentali, nella notte tra il 12 e il 13 agosto 1961. Il 13 agosto 1961, poco dopo la mezzanotte, venne chiuso il confine tra il settore sovietico e i settori alleati con il posizionamento di sbarramenti provvisori. Il 14 agosto fu chiusa anche la Porta di Brandeburgo. Inizialmente la barriera di confine era fatta di filo spinato, ma già il 15 agosto iniziarono ad essere utilizzati degli elementi prefabbricati di cemento e pietra destinati poi a formare un vero e proprio muro.
A quel tempo, per giustificare la costruzione di quella barriera fu sostenuto che si trattava di un "muro di protezione antifascista" inteso ad evitare un'aggressione occidentale. Ma fu chiaro sin dall'inizio che questa giustificazione serviva unicamente come copertura per evitare ai cittadini della Germania Est di transitare a Berlino Ovest. In effetti, come si è detto, la DDR (Deutsche Demokratische Republik) stava vivendo una fuga in massa verso Ovest, fatta anche di professionisti, lavoratori specializzati e membri dell’esercito. Con la costruzione del muro quelle migrazioni furono abbattute, passando dai due milioni e mezzo del periodo 1949-1962 alle cinquemila unità del periodo compreso tra il 1962 ed il 1989. Dal punto di vista dell’efficacia securitaria la costruzione del Muro fu un successo innegabile. Tuttavia, dal punto di vista della comunicazione politica, Il Muro di Berlino fu un disastro non solo per la DDR ma per tutto il blocco comunista. Quel muro, infatti, presto divenne il simbolo della tirannia comunista, specialmente dopo le uccisioni avvenute durante i tentativi di fuga a cui i media occidentali davano ampio risalto. Nella sua estensione completa il Muro era lungo più di 150 km. Nel giugno 1962 venne costruita una seconda barriera, interna rispetto al muro principale, e destinata a rendere più difficile la fuga verso la Germania Ovest. Questa lingua di terra venne chiamata “striscia della morte”. E solo qualche anno dopo, nel 1965, si diede inizio alla costruzione di una barriera che avrebbe soppiantato tutte le precedenti. Ad essere edificato, stavolta, era un Muro composto da lastre di cemento armato collegate da montanti di acciaio e coperti da un tubo di cemento. Ma il delirio securitario non era ancora finito: nel 1975 l’assemblaggio di 45.000 sezioni separate di cemento armato rinforzato, produsse una cinta muraria delle dimensioni di quattro metri di altezza per un metro e mezzo di larghezza. Nell’arco di questi trent’anni il Muro di Berlino fu ripetutamente potenziato fino a divenire per anni forse il principale simbolo della divisione e dell’incomprensione tra i popoli e le culture, la rappresentazione stessa della rottura di ogni forma di dialogo e conciliazione. Tuttavia, nel 1986, ai tempi di Gorbaciov e della sua politica di apertura ad Occidente, a Berlino Ovest, nel corso delle celebrazioni del 750° anniversario della città, avvenne un fatto che vale la pena di essere ricordato: il presidente degli Stati Uniti Ronald Reagan, in quella circostanza, aveva tenuto un discorso in prossimità della Porta di Brandeburgo, proprio a ridosso del Muro di berlino. E il passo saliente di quel discorso fu probabilmente il primo vero e proprio colpo di piccone per abbattere quella barriera: «General Secretary Gorbaciov, if you seek peace, if you seek prosperity for the Soviet Union and Eastern Europe, if you seek liberalisation, come here to this gate. Mr Gorbaciov, open this gate. Mr Gorbaciov, Mr. Gorbaciov, tear down this wall!». Il secondo e fatale colpo di piccone al Muro venne dato 23 agosto 1989 quando l’Ungheria rimosse le restrizioni con l’Austria. Già a partire dall'11 settembre 1989, infatti, più di diecimila tedeschi dell'Est cominciarono a sciamare verso l'Ungheria e all'annuncio che non sarebbe stato loro consentito di attraversare il confine a Berlino cominciarono le manifestazioni contro il governo filosovietico per chiedere maggiori libertà. La protesta popolare costrinse alle dimissioni il leader della DDR, Erich Honecker. I tempi per lo sgretolamento del Muro erano ormai maturi. L’ultimo colpo di piccone fu dato via etere quando il 9 novembre 1989 il nuovo governo di Egon Krenz decise di concedere i permessi per la Germania dell'Ovest e diede l'annuncio alla televisione. Fu così che migliaia di berlinesi dopo aver ascoltato le parole dette in televisione si precipitarono verso i punti di transito chiedendo di entrare a Berlino Ovest. Le guardie di confine, sorprese, iniziarono a tempestare di telefonate i loro superiori per chiedere che cosa fare, ma era ormai chiaro che l'annuncio dato via etere aveva innescato una reazione popolare alla quale non era più possibile rispondere se non aprendo i posti di blocco senza effettuare alcun controllo sull'identità. I berlinesi dell'Est furono accolti in maniera festosa dai berlinesi dell'Ovest e, spontaneamente, cominciò una festa che caricò di aspettative il futuro non solo dei berlinesi e dei tedeschi ma del mondo intero. Qualche giorno dopo, il 28 novembre, il cancelliere Helmut Kohl presentava in Parlamento il piano di riunificazione della Germania e per l’Europa e il mondo intero sarebbe cominciato un nuovo corso fatto di attese e speranze quasi messianiche. Quel 9 novembre 1989 il Muro di Berlino si sgretolò definitivamente. Una volta venuto meno il muro dell’incomunicabilità e della contrapposizione ideologica tra i due sistemi allora dominanti il passo successivo era uno solo: la riunificazione della Germania. Il 10 febbraio 1990 Kohl aveva incontrato a Mosca Gorbaciov ed il leader sovietico aveva riconosciuto il diritto dei tedeschi alla riunificazione rispondendo in fondo a quell’appello lanciatogli da Reagan dalla Porta di Brandeburgo qualche anno prima. Il 24 aprile lo stesso Kohl aveva messo a punto un accordo di unione economica e monetaria con Lothar de Maizière, allora presidente del consiglio della DDR. Il 12 settembre 1990 a Mosca i ministri degli esteri di Usa, URSS, Francia, Gran Bretagna e delle due Germanie firmarono il “Trattato 2+4” che avrebbe posto le basi giuridiche e politiche della riunificazione. Il “2+4” era concepito, per così dire, come una sorta di sigillo ufficiale sul ritorno ad una Germania unita, con i territori dell’Est che venivano annessi alla Repubblica Federale Tedesca. All’inizio degli anni Novanta lo sbilanciamento di forze tra le due Germanie era sotto gli occhi di tutti. I Länder della ex-DDR apparivano in ritardo di sviluppo rispetto a quelli occidentali sotto ogni profilo: per gli standard di vita, le infrastrutture, le capacità produttive, la ricerca e la struttura imprenditoriale. Per questa ragione nel 1991 era stata introdotta la Solidaritätszuschlag, ossia una tassa del 5,5% sul reddito di tutti i cittadini tedeschi per finanziare la ricostruzione ad Est. Tuttavia, ancora nel 2018 attraverso questa tassa venivano raccolti quasi 20 miliardi di euro. Grazie alla tassa di solidarietà i Länder orientali hanno potuto dotarsi di infrastrutture strategiche come strade, ferrovie, ponti, parchi e sono state eliminate il 95% delle emissioni di anidride solforosa. La riunificazione ha avuto sì costi importanti, ma è altresì stata una straordinaria opportunità di investimento per i tedeschi e non solo. Si calcola che tra il 1991 e la fine degli anni Novanta in Germania sono affluiti investimenti esteri per oltre mille e duecento miliardi di euro, di cui quasi 400 provenienti da Paesi che poi avrebbero costituito l’Unione monetaria. Secondo la stima dell’Istituto delle ricerche economiche di Monaco di Baviera dalla caduta del Muro ci sono stati trasferimenti finanziari da Ovest ad Est grossomodo per tremila e 400 miliardi di euro. Grazie ad una crescita più forte rispetto a quella della parte occidentale del Paese, i Länder orientali hanno potuto ottenere sì dei risultati economici importanti ma il divario con la parte occidentale non è stato ancora ricucito. Gli investimenti hanno sì permesso gli aumenti salariali, delle migliori pensioni ed un livello di disoccupazione che oggi si attesta su valori di poco superiori al 6% ma resta ancora l’altra faccia della medaglia, quella di un’area dove per ogni cinque posti di lavoro creati se ne perdono quattro e dove è in corso una vera e propria emorragia demografica. Nel 2015, secondo l’Istituto di statistica tedesco, nella ex Germania Est vivevano dodici milioni e mezzo di persone: vale a dire oltre due milioni in meno del 1989. In alcune aree dell’ex Germania Est, hanno raccontato in questi anni i giornali, il calo degli abitanti ha costretto alla chiusura di centinaia tra scuole, asili, piscine e biblioteche pubbliche, perché i costi per la loro gestione erano diventati sproporzionati rispetto al numero di abitanti che usufruivano di quei servizi. In molte aree periferiche della Sassonia, della Turingia, del Meclemburgo e del Brandeburgo, in particolare nelle aree rurali e in quelle dove un tempo dominavano le grandi industrie ora chiuse, interi quartieri di palazzi rimasti vuoti sono stati abbandonati e in molti casi abbattuti. Lo scenario delle due Germanie se rende abbastanza l’idea delle differenze tra Est e Ovest, tuttavia, per certi aspetti, può apparire riduttivo. La parte orientale della Germania, infatti, è un mosaico ben più composito, fatto di chiaroscuri, tessere di dimensioni e sfumature diverse. Se è vero che in alcune aree si registra un’importante spopolamento, è altresì vero che vi sono alcune realtà urbane, come Lipsia e Dresda in Sassonia, in cui la ricostruzione è avvenuta con creatività e spirito imprenditoriale ed ha portato anche alla nascita di imprese ad alta tecnologia. In sintesi, si potrebbe dire che ad Est un significativo sviluppo c’è stato, ma è stato diseguale. Esso ha infatti toccato solo la parte più modernamente urbanizzata delle aree orientali della Germania, ed ha penalizzato quelle ex industriali e rurali. Oggi le grandi imprese continuano ancora a stare ad Ovest. Ad Est, infatti, non ha il quartier generale nessuna delle trenta maggiori aziende tedesche quotate al Dax30. E delle 500 imprese più grandi della Germania, non sono nemmeno quaranta quelle che hanno base nei Länder orientali. Appare evidente che in una situazione di questa natura alle aspettative disattese si possono accompagnare malumori, insofferenze e voglia di riscatto. Alla caduta del Muro è seguita l’aspettativa di un’età dell’oro che non è mai arrivata. Non deve dunque sorprendere che ad Est i partiti populisti di estrema destra abbiano raggiunto il 25% dei consensi. Se in Sassonia la CDU rimane il primo partito con quasi il 33%, essa perde oltre 7 punti percentuali, finendo incalzata dalla stessa AfD (Alternative für Deutschland), che sfiora il 28% e diventa un partito di grande attrattiva soprattutto tra i giovani. La sinistra (Linke) crolla al 10%, in calo di oltre 8 punti, mentre i socialdemocratici (SPD, Sozialdemokratische Partei Deutschlands) si fermano all’8%. I Grüne (Verdi) sono gli unici che tengono bene il passo delle destre arrivando al 9%, crescendo di ben tre punti. Come in Sassonia anche nel Brandeburgo si è riprodotta la medesima dinamica: i socialdemocratici che scendono al 26%, pur rimanendo il primo partito, e l’estrema destra dell’AfD che avanza, sfiorando il 24%. La CDU in Brandeburgo si attesta sul 16%, mentre i Verdi salgono e superano il 10%, diventando il primo partito tra i giovani sotto i 29 anni. Anche in Brandeburgo come in Sassonia la sinistra perde terreno, segnando un record negativo all’11%. A trent’anni dalla caduta del Muro di Berlino, ed a settanta dal’inizio della Guerra fredda in Europa, si aggira uno spettro che è ben più insidioso degli squilibri nello sviluppo economico dei Paesi e delle regioni d’Europa, e forse anche più letale dei cambiamenti climatici di cui stiamo lentamente prendendo coscienza. È lo spettro dell’antisemitismo. Nel 2019, non solo in Germania ma anche in molti altri Paesi europei, abbiamo assistito al risorgere di sentimenti ed atti diretti contro individui ed istituzioni ebraiche: omicidi, aggressioni fisiche e verbali, profanazioni di luoghi di culto e cimiteri ebraici. Non solo gli episodi della scuola ebraica di Tolosa, del museo ebraico di Bruxelles, del supermercato kasher parigino, della sinagoga di Copenhagen, ma altri eventi minori, hanno fatto emergere un sentimento di intolleranza razziale e di vero e proprio antisemitismo in Paesi come Germania, Francia e la stessa Italia. Secondo dati diffusi nel maggio 2019 dal Ministero degli interni tedesco i reati caratterizzati dall’antisemitismo sarebbero aumentati del 20% nell’ultimo anno. Si tratta di aggressioni e minacce, uso di simboli nazisti, atti vandalici contro monumenti e lapidi e reati digitali aventi ad oggetto l’incitamento all’odio nei confronti degli ebrei. Tanto per dare delle cifre concrete i reati riconducibili ad antisemitismo sarebbero passati dai 1.500 del 2017 ai 1.800 del 2018. Mentre quelli a sfondo xenofobo sono passati dai circa 6.500 ai 7.700 facendo segnare anche in questo caso un +20% rispetto alla precedente rilevazione. Il cancelliere tedesco Angela Merkel, in un’intervista rilasciata alla CNN, ha così commentato: «Abbiamo sempre avuto un certo numero di antisemiti» e, «sfortunatamente, a tutt'oggi, non esiste in Germania una sola sinagoga o scuola materna per bambini ebrei che possa fare a meno della sorveglianza della polizia.». La Merkel ha poi aggiunto che oggi l'antisemitismo è un problema e che la Germania ha una sua responsabilità storica e per questo deve far fronte alla crescente minaccia del populismo di estrema destra: «Dobbiamo far fronte agli spettri del passato: dire ai giovani quali sono stati gli orrori della guerra per noi e gli altri, spiegare perché siamo a favore della democrazia, perché combattere l'intolleranza e non tollerare le violazioni dei diritti umani, e perché l'articolo uno delle nostre leggi - l'inviolabilità della dignità umana - è fondamentale per noi. Occorre insegnare queste cose a ogni nuova generazione. È diventato più difficile, ma proprio per questo dobbiamo rinnovare il nostro impegno». Secondo fonti del Ministero degli interni tedesco, infatti, la larga maggioranza degli episodi riconducibili all’antisemitismo nasce all’interno dell’area ideologica dell’estrema destra, come ad esempio gli slogan, gli atti vandalici e le intimidazioni a sfondo razzista e xenofobo che si sono verificate nel 2019 a Chemnitz, nella Germania centro-orientale, durante una manifestazione di estrema destra. In particolare, nel corso del corteo, al di là degli slogan gridati sono state anche scagliate bottiglie, pietre e barre di metallo contro l’unico ristorante kosher della città. Se l’odio antiebraico e l’intolleranza etnica e religiosa sono in crescita in tutta Europa, il fenomeno in Germania assume connotazioni decisamente significative: l’attentato diretto contro la sinagoga di Halle, una piccola città della Sassonia, nella regione orientale del paese appunto, è avvenuto in una regione dove militano da tempo gruppi estremisti di matrice neonazista. Ad oltre settant’anni dopo gli orrori dello sterminio nazista all’interno della narrativa politica vengono riesumati i classici stereotipi di matrice antisemita quali la narrativa del potere finanziario e politico degli ebrei o quella della volontà degli ebrei di demolire la supremazia bianca in Europa promuovendo l’ingresso di immigrati dall’Africa e dal Medio Oriente. Ma gli attacchi a connotazione antisemita non sono una caratteristica della sola Germania ma sono un male europeo. Solamente a febbraio del 2019, il Ministro degli interni francese, Christophe Castaner, ha dichiarato che «l’antisemitismo si sta diffondendo come il veleno». Secondo le statistiche governative riferite nel 2019 i reati contro gli ebrei sarebbero incrementati di oltre il 70% nell’ultimo biennio considerato, passando dagli oltre 300 casi del 2017 ai 540 del 2018. A testimonianza di questo clima di intolleranza etnica le svastiche apparse a Parigi sulle immagini di Simone Veil, sopravvissuta all’olocausto e prima presidente del Parlamento europeo, la scritta “giudeo” sulla vetrina di un ristorante parigino della catena Bagelstein e la profanazione di un cimitero ebraico a Bordeaux sono solo alcuni esempi di questo clima. Per il presidente francese, Emmanuel Macron, l’escalation di atti vandalici contro gli ebrei è stata definita «inaccettabile» e l'antisemitismo in Francia come un «un ripudio della Repubblica e dei suoi valori». Anche in Italia si sono registrati episodi a sfondo razzista che hanno visto al centro dell’attenzione la comunità ebraica. Secondo l’ultimo rapporto redatto dall’Osservatorio antisemitismo del Centro di documentazione ebraica contemporanea (CDEC), nel 2018 si sono avuti quasi 200 episodi di antisemitismo, tra aggressioni fisiche, insulti e minacce verbali, atti vandalici e, soprattutto, violenza in rete. Nel rapporto si osserva, infatti, che «il web ha permesso la formazione di una cultura dove l’antisemitismo assume accettabilità sociale, in particolare fra i giovani. La promozione di teorie cospirative, la demonizzazione degli ebrei e dello stato ebraico, e l’uso degli ebrei/sionisti come capro espiatorio diventano norma». L’Agenzia europea per i diritti fondamentali ha pubblicato i risultati di un sondaggio che ha coinvolto oltre 16.000 cittadini ebrei appartenenti a diversi Paesi dell’Unione Europea. L’indagine, oltre a registrare la persistenza del pregiudizio antiebraico ha evidenziato tra gli ebrei intervistati la sussistenza di uno stato d’ansia diffusa e la sensazione di vivere in una situazione di insicurezza. Se può non stupire che secondo il 90% degli intervistati Internet ed i social network costituiscono lo spazio dove più frequenti e violenti sono gli attacchi a sfondo antisemita, deve destare una certa preoccupazione che quasi il 30% degli intervistati ha affermato di aver subito una qualche forma di insulto o minaccia associata al fatto di essere ebreo, e questo non nel corso della propria esistenza ma solamente nell’ultimo anno. Si comprende pertanto come mai quasi il 40% abbia pensato che una risposta al senso di insicurezza possa venire dall’emigrazione. Stupisce che più di 300 soggetti tra gli intervistati, vale a dire il 2%, abbia dichiarato di essere stato non solo insultato ma addirittura attaccato fisicamente per il fatto di essere ebreo. La xenofobia e l’antisemitismo, quindi, non sono un fatto geograficamente confinato al Brandeburgo ed alla Sassonia, e nemmeno all’Europa centro-orientale: sono invece un fenomeno che riguarda l’intero continente europeo e che non esclude nemmeno l’Italia. Forse a molti potrebbe apparire esagerato che oggi molti ebrei in tutta l'Unione Europea temono per la propria incolumità, per quella dei propri familiari e delle persone a loro care. Però è così ed i diversi episodi che abbiamo citato sembrano testimoniarlo in modo abbastanza evidente. Le molestie verbali – specie sui social – ma anche gli atti di vandalismo contro i luoghi di culto e i cimiteri stanno diventando molto, anzi, troppo frequenti. E tutto questo accade senza che la maggior parte di noi sembri manifestare un grande interesse per ciò che sta accadendo. Anzi tutto sembra accadere all’interno di una logica della normalizzazione che tristemente riporta alla memoria la banalità del male. Le discriminazioni antisemite, infatti, quando non si traducono in comportamenti apertamente violenti ma restano ad un livello virtuale, spesso restano invisibili ai più e molto spesso non vengono segnalate neppure da chi ne subisce direttamente gli effetti. Questi fatti, a trent’anni dalla caduta del Muro di Berlino ed a più di settanta dalle leggi razziali, fanno sì che si renda necessaria una profonda riflessione sul fenomeno, e non solo all’interno dei palazzi del potere ma all’interno della comunità politica e civile più ampia. E ciò non deve essere assolutamente inteso come un invito buonista ma come un atto dovuto nei confronti di tutti coloro che qualche anno fa hanno pagato con la vita il loro essere diversi. Note bibliografiche
data di pubblicazione:
29-12-2019
autore: Luca Bregantini | fonte: inedita | tema: POLITICA
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