Celso Macor: quindici anni di memoria viva per dare concretezza ed attualità esigenze ad una testimonianza che conserva ancora non poche potenzialità e che continua ad esprimere messaggi incoraggianti a quanti si mettono nelle sua lunghezza d’onda. In questo numero ricordiamo l’uomo e il credente, l’intellettuale ed il politico, il poeta e il giornalista facendo riferimento proprio ai ventiquattro lavori che caratterizzano il quaderno numero 4 dell’edizione del Premio Celso Macor. Il premio, che è promosso dall’amministrazione comunale di Romans e di altri impegnati collaboratori, si unisce a diverse altre iniziative benemerite tendenti a raccogliere utilmente quanto in una vita intera 6 stato seminato.
Parlare di 24 lavori, in due brevi spazi: avrebbe basito perfino Tacito. Tentiamo, senza sprecare parole, aiutati dalla copertina del quaderno numero 4, nell’eccellente cura di Paola Francescon, nitida realizzazione del centro stampa di Monfalcone. Celso Macor (la parola) e Massimo Cargnel (l’immagine) alle foci dell’Isonzo. L’acqua, il fluire del tempo: dinanzi, fine di lungo viaggio; rivoli, ruscelli; grande fiume abbracciato dal mare... per ricominciare. Così i lavori: parole esprimono pensieri, formano ampio racconto dell’esistere; ieri, oggi, per un domani forse migliore. Polifonia: fasi melodiose, passaggi scabri di parola e di tragedie; speranze di identità anche minime che non vogliono sparire; riflussi; cadute, riprese del cammino. Quaranta pagine, la V edizione del premio letterario Celso Macor; poco meno la VI. Se non catturata, la parola vola; qui, sostanzia creatività, idee che lo scritto tramanda; quasi eco, le speranze d’Europa, nel friulano caldo di Macor, sullo sfondo opalescente di una basilica di San Pietro in Roma, non domatrice di popoli, ma abbraccio d’amore. “La mia terra” (Vanessa Pippo): nella scuola nasce la poesia; una giovane studentessa parla della sua terra; terra non solo amata, ma “pensata”. Ancora scuola e gioventù al femminile nel “Viaggio ad Alliata” (Sara Busato), dal ritmo musicale e coinvolgente, in sensazioni molteplici e contemporanee (sinestesie), espresse da un lessico caleidoscopico. “Pedalando lungo l’argine del Reno” (Mattia Raggi, (studente di Argenta, patria del martire don Minzoni): un ragazzo offre il profumo di bosco, parlare e vivere di piante e animali. Legge il paesaggio perfino nella fatica degli scariolanti, lo conosce e lo descrive alitato di poesia. Di un’altra giovane (Mariachiara Coco), è “Viaggio” (tale è il titolo) distillato di pensieri, riflessioni fatiche e trepide speranze, ben condensati in 18 versi. “Liziera come ‘l svol de ‘na sgarzeta” (Alberto Vittorio Spanghero) racconta, con un musicale e tragico neoverismo, la storia di Merico, splendidamente ambientata per musicalità, immagini, rimandi, in un bisiaco trattato plasticamente. “Tempo passao” (Lucia Fabris): una donna narra di una madre, con lingua musicale gradese, vocata al canto, alternando felicemente immagini e sentimento. “Viti rosse” (Elena Gnot) tinge, di colori e patos i ricordi e la natura nella nostalgia dell’infanzia.
Ermetico esprimersi e scavare in immagini, sentimenti: i versi di “Avanzi di un’auto-psia” (Sandro Pioli), come un affresco neorealista che colpisce fortemente il lettore. “Nostòs 1 e 2 (il ritorno)” (Chiara Passarella): cultura classica e immagini liriche, espresse in concisa ricchezza, sposano parole ben tornite a immagini e sentimenti di armoniosa bellezza e spiritualità. “Anin varin fortuna” (Giuseppe Fumo): versi popolari, evocatori di sapida vita paesana, raccontano la storia della coralità rudese (di Ruda, nella Bassa calda di lotte e di umanità), rendendo merito al poeta paesano Carlut Ross, a Rolando Cian - multiforme personaggio finalmente tolto dall’oblio - al m.o violoncellista Alfonso Mosetti e alle folle canore di una musicalissima Ruda “Li mans di mê mari” (Silvio Zamaro): la martellante iterazione del termine “mans” ritma l’epopea della fatica di vivere della madre; in una apparente ruvidità, che cela appena un affetto pudico e supremo. “La ballata dell’acrobata solitario” (Enrico Colussi) svela una sorprendente abilità descrittiva, legata ad una capacità di analisi, nella metafora del dibattersi vivere dell’uomo contemporaneo. “Lûcs, distancis e colôrs” (Gino Marco Pascolini): vi si respira semplicità e fine cultura; significati palesi e intima, criptica, originale complessità: emergono una lingua friulana senza forzature, sulla punta delle dita e una stupefacente conoscenza di paesaggi (fin negli aspetti minimi), nella costante ripulsa di ogni violenza. Per fortuna, e consapevolezza, sta mutando il sentire delle “celebrazioni” della grande guerra (ma come si fa a “celebrare” “grandezze” del genere!?): “L’eroe Carmelo, o la morte di un disertore” (Andrea Bellavite) entra nell’anima - sperabilmente di tutti - Lui non scappa (e sarebbe - lo stesso - tanto umano); si rifiuta di uccidere. Nelle tante storie successe durante la “inutile strage”, questa, ambientata, con documentato realismo, nei nostri paesi della “Italia redenta”, esprime forse i sentimenti dei più, spesso coperti dal rumore della propaganda e di una affrettata lettura della storia. Non si scrive, qui, contro qualcuno, salvando gli uni e condannando gli altri; si cerca di salvare “soltanto” l’umanità! Del resto tali erano i sentimenti di Giuseppe Ungaretti, quando, nel 1966, torna sul Carso, che lo aveva visto volontario. Era con lui proprio Celso Macor che preconizzava la sparizione dei “nostri” confini. Profezia da proclamare in una cerniera d’Europa oggi scossa di nuovo dai nazionalismi. Quattordici contributi la V edizione; 10 la VI, ma con un lavoro di gruppo nato dalla scuola: “Con Hugin e Munnin in viaggio attraverso l’Europa” (lavoro di gruppo in classe coordinato dalla prof. Gabriella Tamburini), mitologia, leggenda, storia che approda, con documentata ricerca e narrazione, alla realtà locale di Romans. Romans, “nome che puzza di longobardo un miglio”, scrisse la medievista Gina Fasoli, prima che si scoprisse la necropoli (voce fuori campo: per questo un cavalierato spetterebbe di diritto a Ivaldi Calligaris). Dei ragazzi e una prof. affrescano un viaggio dalla Scandinavia fin qui, come fu, in tempi successivi, parlando di una delle “Völkervanderungen” - migrazioni di popoli - una delle più suggestive per modalità ed esiti, ritmando il racconto, coerente e ben costruito, con interventi nella nostra lingua patria. “Da Trieste a Stettino è sorto un arcobaleno” (Daniela Antonioli): un ipotetico colloquio fra Angela Merkel e Robert Shumann, fra l’essere e ciò che dovrebbe essere. I vantaggi della pace in Europa (ma... e la disgraziata guerra coloniale contro la Libia?), della caduta di numerosi confini, dello scambio di popolazioni dove sorgeva un algida “cortina di ferro”, poi la realtà del lavoro che non c’è; della culla della democrazia umiliata e immiserita... Una riflessione che deve porsi nella realtà, prima che un’Europa, guardata da matrigna, possa implodere. La “Breve storia di Arthur Morgenstein” (Enrico Colussi) si sviluppa nella linea guida di un oggetto, un tappeto turco da rito funebre, quasi una eredità, attraverso intrighi di corte, e sangue che imbeve le parole del racconto: per chi legge, quasi una leggenda nera che chi ama la vita spera sia soltanto un sogno. “Su la strade di Praghe” (Paolo Roseano) è un racconto breve, in friulano, che, fra storia e leggenda, mostra un quadro di vita medievale con luci corrusche di un patriarcato in continue lotte, insediato fra l’Adriatico e l’Europa di mezzo. Conti di Gorizia e patriarchi in lotta; l’impero a determinare politica statuale ed ecclesiastica, che fa rimpiangere “charitas et amor” cantati da San Paolino d’Aquileia. Il racconto è impreziosito da una lingua perfettamente modulata, che rende partecipe il lettore della psicologia dei personaggi, di ambienti e vicende, immergendolo in un’epoca, troppo spesso, da altri, acriticamente idealizzata. “Breccia fra le nuvole” (Guergana Radeva): è un racconto che stringe il cuore e l’anima anche a chi sentimentale non è. Il ritmo è fresco, incalzante, perché il pensiero è chiaro e si esprime in struggente sincerità: origini armene, tragedia in Turchia, all’alba di un’epoca che dicevano di modernità; passaggio in una Bulgaria ospitale. La donna più matura, per età ed esperienze di vita, interpella una più giovane. La crede insensibile, forse sciatta, certo disinteressata, e invece, catalizzatore la comunanza del soffrire da esule, le due anime (lei è cecena, con tragedie familiare cocenti) si trovano in sintonia e vanno avanti, perché il dolore è superato dalla speranza di chi, in Europa, pensava anche alle vittime di nazionalismi estremi “Il cuore”, “Dove trova la pioggia tutta quella forza”, “Io non so”; purtroppo sui versi nel dialetto delle Valli del Natisone (Andreina Trusgnach) chi parla, non ha titolo per non conoscenza del linguaggio, ma i versi delle traduzioni piacciono; un cuore salvato da cose apparentemente insignificanti; l’incertezza e la difficoltà nel decidere; lo struggersi per sapere ciò che resterà quando saremo stati e passati; resteranno i versi, resterà il canto; resterà la parola scritta, per questo nel concorso che qui si interpreta... hanno vinto tutti! “Doi voglons clârs” (Marco Floreani): è la patetica condanna di un mondo ipocrita, dove ci sarebbe posto e pane per tutti; ha ragione nei suoi versi friulani e nella realtà; nelle tragedie del Mediterraneo l’unico innocente è stato il mare, per gli altri, solo colpe da dividere o condividere. “Strade de aqua” (Sergio Gregorin): nella luce dell’alba, versi brevi e leggeri muovono di vita le strade di acqua; sull’orlo dei canali, la fatica lenta dei bovi “ongaresi” muove, con le barche tirate immagini d’altri tempi “ta l’acqua cheta” che dispone l’animo al ricordo e alla poesia in un bisiaco musicale e sereno. “Border line (Nova Gorica-Gorizia)”, “El ziel robà” (Marilisa Trevisan). Un vero patrimonio di lessico prezioso arricchisce questi versi, dove molto spesso neppure la consultazione del vocabolario bisiàc sembra bastare a chi autoctono non è. Sensazioni di vista, udito olfatto sono rese con immagini sintetiche di rara efficacia. Se i contenuti non fossero ricchi di mente e di cuore come sono, le metafore, le analogie sazierebbero il desiderio di leggere, e le parole quello di conoscere una lingua affine che - a torto - si immagina semplice. “Anatomia di un viaggio” (Mireia Companys Tena): è quasi un poemetto scritto con la tecnica del corto cinematografico, che canta sensazioni, sentimenti immagini a Lisbona, Praga, Budapest, Zara e Venezia. Una cavalcata d’Europa che spalanca l’anima e respira bellezza nell’identità. A Zara, un esordio di versi di immagini e suoni che toglie il respiro, con l’accompagnamento “... della melodia che solo oggi / l’organo marino ci regala”. I verso sono a coronamento di questo concorso che vuole essere augurio e speranza per un’ Europa che non faccia a meno della bellezza e dell’anima.
Ferruccio Tassin