Celebrando il cinquantesimo anniversario dell’apertura del Concilio Vaticano II è quasi d’obbligo provare a vedere se in quell’evento e nei documenti che ci ha lasciato ci sia uno spunto per i diversi problemi di cui oggi sappiamo di doverci fare carico. A prima vista, affrontando tematiche ambientali, si direbbe di essere di fronte ad un punto di cecità della tradizione cristiana. Nei Documenti del Concilio non troveremo quasi nulla del lessico che ci riporta a questo tema. La parola “ambiente” non conta ricorrenze, la parola “terra” conosce un impiego teologico (in coppia con “cielo”) oppure indica l’estensione geografica (i “confini della terra”). Il termine “Creato” trova a sua volta un impiego teologico insieme all’idea - anche questa teologica e non cosmogonica - del Dio “Creatore”, per non parlare della nozione di “natura”, che non viene mai riferita all’ambiente naturale, ma riprende la nozione filosofica di “essenza”, ousia per i greci, natura - appunto - per i latini. Anche i passi storici che segnano il progressivo ingresso delle tematiche ambientali nella riflessione cristiana hanno una datazione posteriore al Concilio Vaticano II. È negli anni Sessanta che inizia a maturare a livello globale la sensibilità per un ecosistema che iniziava a portare in sé le ferite del progresso teconologico e dell’antropizzazione. Qualcuno ricorderà anche che proprio in quegli anni si fece strada l’idea che alle radici di quell’attitudine rapace rispetto alle risorse del pianeta ci fosse proprio la mens cristiana. È del 1967 un piccolo ma famoso saggio di Lynn White, Le radici storiche della nostra crisi, in cui si sosteneva che l’antropocentrismo ebraico-cristiano costituisse il terreno di coltura in cui è potuta maturare l’idea che la natura non avesse «ragione di esistere, salvo che per servire l’uomo».1 Si tratta di posizioni superate dal dibattito successivo, che ha esplorato con attenzione esegetica il passo di Gen 1,28 in cui compare il noto invito a «soggiogare» la terra e a «dominare» sui viventi. Le traduzione moderne spesso non hanno reso giustizia al significato del testo ebraico, che allude non allo sfruttamento ma all’aver cura, dinamica molto più familiare agli antichi. Lo stesso «dominare», (dominor) della Vulgata non poteva suonare per il pensiero cristiano degli antichi come uno sfruttare senza misura: dominare era l’esercizio della signoria che governava tutta la domus, la casa, badando a mantenerne gli equilibri. Sempre dal punto di vista storico rimane però vero che una tematizzazione istituzionale delle problematiche ambientali si afferma solo in tempi più recenti e nel contesto del cammino ecumenico: è del 1983 l’appello del Consiglio Ecumenico delle Chiese per un «processo conciliare di mutua dedizione a giustizia, pace e salvaguardia del creato», mentre nel 1989 a Basilea la I Assemblea ecumenica europea, dal titolo “Pace nella Giustizia” a cui partecipano la Conferenza delle Chiese europee (KEK) e il Consiglio delle Conferenze Episcopali d'Europa (CCEE) si dà come compito precipuo quello di esprimere l'impegno dei cristiani europei per la pace, la giustizia e la salvaguardia del creato. Si afferma così l’espressione «salvaguardia del creato»: in Italia la CEI ha attribuito questa attenzione alla Commissioni Episcopali per i problemi sociali e il lavoro, la giustizia e la pace, e alla Commissione Episcopale per l'ecumenismo e il dialogo, istituendo dal 1° settembre 2006 la Giornata per la Salvaguardia del Creato. Giungiamo dunque ai giorni nostri. Possiamo dire che la considerazione attenta dell’ambiente sia cosa solo recente per la tradizione cristiana? Questo può essere vero dal punto di vista della storia dei documenti e delle istituzioni ma noi potremmo sporgerci verso una prospettiva diversa, in qualche modo analoga a quella di Lynn White: quale posto trova l’ambiente nella mens di un cristiano? Per mettere a fuoco i tratti essenziali di questa mens, o della coscienza cristiana, possiamo provare a far perno proprio sul momento centrale dell’esperienza cristiana, su ciò che la Sacrosanctum Concilium riconosce come «fons et culmen»2 di tutta la vita cristiana: la liturgia, ed in particolare l’Eucarestia. Nell’Eucarestia - che etimologicamente significa “rendimento di grazie” - ciò che viene presentato come offerta per divenire luogo dell’incontro con Dio è il «frutto della terra e del lavoro dell’uomo». In questo gesto è racchiusa l’idea che la terra non sia affatto estranea al rapporto dell’uomo con Dio, ma che vi entri attraverso una trasformazione - quella del lavoro - che la umanizza fino a farla diventare il centro della tavola, il luogo più umano che ci sia. La terra trasformata porta frutto, e per questo frutto la preghiera si esprime anzitutto con un rendimento di grazie. Questo rendimento di grazie è detto anche “benedizione ascendente”: è il gesto dell’uomo che benedice Dio - dice bene di Dio - riconoscendo che la terra trasformata, non più estranea all’umano, è un dono di Dio per la sua vita.
Il Sacramento dell’Eucarestia introduce però una ulteriore trasformazione, su cui può essere interessante sostare. La preghiera eucaristica si esprime in questo modo: «Santifica, o Dio, questa offerta con la potenza della tua benedizione, e degnati di accettarla a nostro favore, in sacrificio spirituale e perfetto, perché diventi per noi il corpo e il sangue del Signore nostro Gesù Cristo».3 In questo caso il pane e il vino sono al centro di una seconda benedizione, questa volta detta “discendente”. È la benedizione di Dio, che ancora una volta si riversa sul «frutto della terra e del lavoro dell’uomo» trasformandoli nuovamente. È interessante osservare che i cristiani chiedono a Dio di trasformare ciò che l’uomo ha già trasformato: da qualsiasi parte ci si accosti, il rapporto tra Dio e la terra è sempre concepito come mediato dall’uomo. Questa seconda trasformazione merita attenzione, perché consente di mettere a fuoco un ulteriore aspetto della mens cristiana rispetto alla terra e al mondo. La teologia medievale, in particolare con Tommaso d’Aquino, ha elaborato a questo proposito l’idea di transustanziazione, una trasformazione della sostanza. In alcuni contesti cristiani quest’idea teologica è stata accolta con un sorriso ironico. Ancora oggi nel mondo germanofono si usa l’espressione «hocus pocus», che corrisponde al nostro «abracadabra»: si ritiene si tratti proprio una distorsione delle parole «hoc est corpus» pronunciate nella consacrazione del pane e del vino. Non era chiaro di quale trasformazione si trattasse e perciò veniva assimilata ad un gioco di prestigio dagli esiti dubbi.
Proprio Tommaso d’Aquino è d’aiuto per fissare un aspetto di questa trasformazione misteriosa: «Il corpo di Cristo - scrive - è in questo sacramento alla maniera della sostanza. Ma la sostanza in quanto tale non è visibile a un occhio corporale, né è conoscibile da altri sensi e neppure dall'immaginazione, ma soltanto dall’intelligenza la quale ha per oggetto “ciò che la cosa è”, come si esprime Aristotele. Perciò, propriamente parlando, il corpo di Cristo nella sua presenza sacramentale non è percepibile né dal senso né dall'immaginazione; ma solo dall'intelletto, che viene chiamato l’occhio dello spirito». 4 È interessante notare che Tommaso qui segnala tre modi diversi del rapporto dell'uomo con la realtà: i sensi, l'immaginazione e l'intelligenza. La trasformazione sacramentale non si percepisce con i sensi. Tuttavia non si tratta neppure di sforzarsi di immaginare che nella realtà sia avvenuto qualcosa di arbitrario, cioè di dare spazio alla fantasia. Lavorare di fantasia significa pensare che il cambiamento dipenda ancora una volta da noi, cioè dallo sforzo creativo e dall’azione trasformatrice dell’uomo. Secondo Tommaso si tratta invece di maturare uno sguardo spirituale, l'occhio dello spirito, la capacità cioè di riconoscere la nuova presenza di Dio in una realtà che, per ciò che appare ai sensi, non è in nulla diversa. Questo è lo sguardo della fede, lo sguardo dell’uomo che ha fiducia nell’azione trasformatrice di Dio e chiede di poterla riconoscere nella realtà stessa che ha dinanzi a sé. È uno sguardo che - a partire dalla presenza sacramentale - la mens cristiana cerca di rivolgere a tutta la realtà ed in senso più tipico alla storia. Un cristiano non si chiede anzitutto come Dio sia presente nella natura, ma come Dio entri e sia presente nelle vicende ordinarie della vita e come in queste vicende si realizzi la sua promessa di salvezza. Anche però circoscrivendo l’attenzione alla natura ed alla terra, possiamo comprendere che in questa prospettiva la presenza di Dio nella realtà non è assimilabile ad un intervento magico, né a qualcosa che trasforma la realtà così come la trasforma il lavoro dell'uomo. Il cristiano si attende piuttosto che Dio trasformi la realtà di ogni giorno dandole consistenza spirituale, facendola essere luogo di vita e di salvezza e aprendogli la possibilità di abitare in modo nuovo la realtà di sempre. Questo significa che i frutti della terra e del lavoro dell’uomo non vengono né sacralizzati né divinizzati, ma non rimangono neppure semplici beni da consumare e sfruttare, perché tutta la realtà è coinvolta nella redenzione e nella promessa di salvezza. La parola «salvaguardia» non a caso include proprio la parola salvezza, e la scelta non è solamente lessicale. La partecipazione di tutta la realtà alla redenzione è stata avvertita in modo molto forte fin dai primi secoli. Gli autori cristiani antichi, meditando sul mistero dell’incarnazione di Cristo, avevano fissato due principi molto importanti: anzitutto si trattava di riconoscere una iniziativa di Dio finalizzata a rispondere alla domanda di vita duratura e piena che ciascun uomo coltiva in sé: «Dio - sintetizzava ad esempio Ireneo di Lione - si è fatto uomo perché l’uomo diventasse Dio».5 Contro quanti poi sostenevano che Cristo non fosse stato pienamente uomo, i padri opponevano una seconda sintesi: «Ciò che non è assunto non è salvato».6 Cristo, confessavano gli autori antichi, ha portato la salvezza proprio perché ha preso con sé tutto ciò che umano. In questi due elementi essenziali era raccolta la consapevolezza che il destino dell’uomo è per la vita, e che nulla di ciò che passa nella vita e nell’esperienza dell’uomo è estraneo a Dio o rifiutato da Lui (salvo, naturalmente, ciò che chiamiamo "peccato" e che esprime una scelta di separazione da Dio). Proprio a partire da questa visione si è fatta strada l’idea che per coinvolgere la terra nella redenzione e nella vita stessa di Dio occorresse includerla nell’umano, trasformarla anzitutto in qualcosa che facesse parte a pieno titolo della vita umana. Ecco allora l’alleanza tra terra e lavoro: una alleanza il cui frutto è già buono (benedizione ascendente) ed è aperto ad una più intensa e definitiva partecipazione alla Vita, che può essere realizzata solo da Dio stesso (benedizione discendente). Nella mens cristiana allora trasformare la terra significa includerla nell’umano, perché possa poi essere toccata e coinvolta nel divino ed aver parte alla salvezza portata da Cristo. Da questo punto di vista si può dire che la coscienza cristiana, lì dove la prospettiva spirituale rimane in primo piano, contempla un senso di profonda solidarietà con la terra e con ciò che viene dalla terra. Questa solidarietà non si traduce però mai né in una visione strumentale dell’ambiente né in una sua divinizzazione: per la mens cristiana la vocazione della terra non è né quella di essere esclusa dalla vita e dalla salvezza né quella di essere salvata escludendo l’umano. Si tratta di due grandi coordinate, all’interno delle quali sono possibili tutte quelle forme di cooperazione con le diverse culture e sensibilità impegnate per la salva-guardia - salvezza e custodia - dell’ambiente in cui viviamo. Ancor prima sono coordinate all’interno delle quali è possibile sviluppare un pensiero cristiano sull'ambiente - come ha mostrato Celso Macor - ed una più consapevole attenzione agli stili di vita a cui la stessa riflessione teologica indirizza.